Gravidanza e frustrazione. Maternità: dovere o desiderio?
La società contemporanea sembra averci progressivamente indotti a pensare di poter facilmente soddisfare ogni nostra necessità, ci ha forse anche abituati all’idea di poter avere tutto, tutto e subito, per di più. Le campagne pubblicitarie spingono al consumo, al godimento senza limiti, al “prima consumi e poi paghi”, “parti ora per le vacanze e paghi quando torni”.
La frustrazione del “no”
La frustrazione di un “no” sembra abitare con sempre maggiore difficoltà i discorsi contemporanei e non è infrequente che un genitore o un nonno che rispondono “no” ad una richiesta del bambino si sentano rispondere sbuffando “perché no?!”.
L’incontro con la frustrazione diventa sempre più difficile e si tenta, a tutti i costi, di preservare i bambini, ma anche gli adulti, da questo confronto, eppure la preziosità del “no”, adeguatamente assestato, per uno sviluppo psicologico ed emotivo adeguato, è stata sottolineata già in passato dal pediatra e psicoanalista Donald W. Winnicott: “lo sperimentare frustrazioni, delusioni, la perdita di ciò che si ama, insieme alla consapevolezza della scarsa importanza e debolezza della propria persona, è parte significativa dell’educazione del bambino e che, sicuramente, uno scopo molto importante dell’educazione dovrebbe essere quello di rendere il bambino capace di affrontare la vita senza aiuti esterni” [1] aiutandolo e sostenendolo durante le proprie sperimentazioni, ma senza sostituirsi a lui.
Perché allora siamo così affaticati dal dire “no”? Come mai questo senso di colpa nel dire “no”? Da dove deriva questa intollerabilità ai “no” che la vita ci impone?
Gravidanza e frustrazione: quando la pianificazione del futuro è eccessiva
In seduta le donne, con sempre maggiore frequenza, raccontano di come abbiano la tendenza a pianificare attentamente le tappe, i traguardi e i passaggi della loro vita, oltre ai tempi di conseguimento delle stesse: università in cinque anni, fidanzamento entro i trent’anni, casa autonoma dai genitori al più presto possibile, magari già durante l’università, matrimonio o convivenza stabile entro i trentatré anni, stessa cosa vale per il lavoro a tempo indeterminato, così si compra casa e fra i trentatré e i trentacinque può arrivare il primo figlio. Con piccole sfumature fra donna e donna, ma il cuore del discorso sembra sempre ruotare attorno a quelle che socialmente sembrano essere le naturali tappe e i conseguenti tempi della vita.
Ma se gli eventi non vanno come da programma e la gravidanza non arriva?
La vita, certe volte, impone i suoi “no” e la frustrazione che ne deriva può essere molto importante, quasi ingestibile per alcune persone caratterizzate da significativi tratti di rigidità o da aspettative eccessivamente elevate.
La vita sembra obbligare l’essere umano a confrontarsi con il fatto che non necessariamente intraprendere una strada per raggiungere un obiettivo porta, come esito finale, al conseguimento dello stesso. Alcuni obiettivi possono dipendere per la maggior parte del soggetto, ad esempio conseguire una laurea, altri come il matrimonio, non sono esclusivamente in mano al soggetto, ma coinvolgono un’altra persona. A ben guardare, laurea e matrimonio si configurano quali esiti possibili, e verosimili, di un determinato percorso. Se diventano un dovere disgiunto dal contesto, ma soprattutto dal desiderio, la vita mostra come il percorso divenga più faticoso.
Potrebbe avere degli effetti importanti fermarsi per riflettere sul posto che ciascuno riserva ai propri obiettivi, su come li vive e li percepisce?
Cosa accade quando “fare un figlio” diventa una voce nella colonna “dovere” e non nella colonna “desiderio”?
[1] Donald D. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Psycho – G. Martinelli, Firenze, 1991 p.11
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