Due note sulla “sport-terapia”. Malattia psichiatrica e attività sportiva
Nella sport-terapia l’inconscio ha una maggiore possibilità di mostrarsi, di uscire allo scoperto, dal momento che i meccanismi di difesa sono “distratti” dallo strumento sportivo (pallone, racchetta, spada). Le pulsioni, in particolar modo quelle aggressive, trovano la possibilità di esprimersi in un contesto protetto, come è il campo di gioco, garantito e caratterizzato da limiti ben precisi e definiti che fungono da argini per evitare che il fiume in piena delle emozioni dilaghi nei terreni circostanti inondandoli.
Paziente con diagnosi psichiatrica e attività sportiva
Il confronto con altre persone, altre squadre, altre realtà diventa strumento per il paziente psicotico di incontrare ed eventualmente aprirsi al mondo esterno, accogliendolo e facendosi accogliere in una dimensione che sempre più si allontana da quella relazione simbiotica con i familiari di riferimento che difficilmente permette questa uscita dal “guscio”.
La relazione con i compagni e con la propria squadra permette al paziente di sperimentare nuove competenze e relazioni in un contesto protetto, in un contesto che funge da contenitore del soggetto, anche fisico se si pensa all’uso della maglietta come contenitore d’identità.
La relazione con la squadra funziona anche da contenitore di ansie, preoccupazioni, timori che possono trovare espressione, condivisione e comprensione negli spazi di parola appositamente creati per verbalizzare innanzi tutto l’emotività connessa a questa nuova esperienza e rielaborare/riattribuire senso a quanto accaduto.
Separazione e differenziazione
L’appartenenza ad una squadra può segnare per il soggetto un primo movimento di separazione e differenziazione dalla famiglia di origine, da un lato, non essendo più così invischiato – almeno durante gli allenamenti, le partite e gli incontri di verbalizzazione – nella relazione di dipendenza simbiotica dai familiari, dall’altro, segnala un principio di individualizzazione a partire da una separazione e diversità dagli altri veicolata dal numero sulla maglietta e dalla posizione e dal compito in campo.
Due note sul concetto di “contenimento”
Con il termine “contenimento” faccio riferimento ad una funzione sia concreta sia simbolica, ovvero quello spazio psicologico nella mente dell’operatore dove si situa il paziente, un luogo in cui esiste un pensiero specifico su quel determinato paziente, un desiderio dell’analista (Lacan 1960-61) su quel soggetto. Ciò permette l’esistenza del paziente dentro un limite che, pur lasciando ampio margine di movimento, non consente l’errare vagabondo senza meta.
Nella realtà quotidiana questa funzione simbolica di contenimento si manifesta concretamente nella segnalazione di un limite, di una regola, mediante uno sguardo, una parola che permette al paziente di “sentirsi pensato” e vivo nella mente di un altro e questo pensiero lo fa sentire protetto e, ancor prima, lo fa “esistere”.
Il torneo sportivo può quindi diventare un setting terapeutico all’interno del quale il paziente può vivere, crescere e sviluppare la sua personalità. All’interno di uno spazio protetto e limitato, come può essere il campo di gioco, è possibile il confronto con se stessi e con altre persone, aventi simili problematiche, paure, ansie, frustrazioni, ma anche ri-scoprire interessi, progettare nuovi obiettivi e nuove mete. In questa “palestra” è possibile giungere e sperimentare nuove competenze rispetto a se stessi, competenze che saranno riutilizzabili anche nella vita quotidiana, fuori dall’ambito sportivo.
La “sport-terapia” per uscire dall’isolamento
Lo sport può aiutare ad emergere, ad uscire da quella condizione di nascondimento e vergogna rispetto allo sguardo dell’altro, di ritiro e di autoisolamento. Può aiutare a smarcare lo stigma sociale che avvolge la malattia mentale, soprattutto quella psichiatrica.
La “sport-terapia”, inoltre, prevedendo l’interazione quale conditio sine qua non per la pratica sportiva, può consentire soprattutto ai pazienti cronici, la cui chiusura psicotica è espressione di un’angoscia profonda ad esporsi a esperienze troppo intense, e quindi della mancanza di fiducia nelle proprie capacità, a sperimentarsi in una nuova cornice.
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1. Il desiderio dell’analista non è il desiderio che si riscontra in coloro che “svolgono la professione” di analisti, ma è una funzione dell’inconscio che è esigibile alla fine di un’analisi e che deve essere riscontrabile in coloro che operano in quanto analisti. (Appunti tratti dall’intervento di Antonio Di Ciaccia “Note sulla fine dell’analisi in Jacques Lacan”. Non ricordo con sicurezza il convegno per poterlo citare precisamente.)
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